venerdì 8 ottobre 2010

Ragionare per frammenti

Andrea Canevaro

Premessa.

Queste note di premessa sono tratte dal progetto - che chi vuole può visitare con ingresso telematico - FIRB Ret@ccessibile: insegnamento - apprendimento insieme e per tutti in un progetto di vita. La responsabilità scientifica di Lucia De Anna, con la collaborazione di colleghi delle università di Bologna, Trento, Roma 3, Napoli e della Fondazione Don Gnocchi.
Nella presentazione del FIRB leggiamo “Il progetto è centrato su uno dei cardini della Pedagogia Speciale: ragionare in relazione ai contesti, che non sono mai inerti, e permettono quindi la creazione di possibilità strutturali di integrazione "buone prassi"in cui le diversità si incontrano e si scambiano nella conoscenza e nell’apprendimento, per rendere le persone e gli ambienti più competenti. I contesti odierni, nella nostra realtà, contengono già una quantità notevole di strutture tecnologiche. Ma non sono pensate in prospettiva inclusiva. La ricerca vuole rendere collegabile le tecnologie sofisticate standardizzate e le possibilità di tecnologie “creative”, che gli stessi soggetti disabili e il loro contorno sociale possono realizzare.
Il target della ricerca è la fascia giovanile che sta realizzando un progetto di qualificazione anche attraverso la formazione universitaria.
Le potenzialità formative della tecnologia di rete, intesa come ambiente per l’intercomunicazione, l’avvicinamento, la collaborazione, e come risorsa per la condivisione di conoscenze ed esperienze, utilizzando l’aspetto tecnologico, ma soprattutto gli aspetti legati alla persona in chiave pedagogica. In particolare lavorando in ambiente web 2.0 che consente di eliminare restrizioni e impedimenti d’ordine spaziale, temporale e personale, in modo da ampliare e riarticolare gli spazi e i modi dell’esperienza individuale e di gruppo, dando adeguato riconoscimento alle istanze dell’immaginazione, dell’affettività, della costruzione creativa e della valorizzazione della persona.
La ricerca vuole ricercare e strutturare soluzioni sociopedagogiche e sociotecnologiche per sperimentare l’integrazione degli aspetti tipici di una piattaforma open source in formazione e in interazione on-line con le prerogative di ambienti di simulazione multiutente, prendendo parte alle relative comunità internazionali di riferimento, vivendo la dimensione di rete come fonte di arricchimento umano, fornendo ai soggetti coinvolti le risorse non solo tecniche, per una presenza effettiva e vivace.
Esistono tuttavia specificità e bisogni educativi speciali di cui dobbiamo tener conto, a cui dobbiamo dare risposte adattate per cercare di eliminare barriere che non permettono la comunicazione e la partecipazione. Il progetto si propone, attraverso l’utilizzazione di tecnologie specifiche e ausili, la maturazione di una padronanza consapevole dei protagonisti, in una reciprocità propria della “cittadinanza attiva”. In questo senso viene previsto il tutorato e l’azione tra gruppi. La scelta si è focalizzata sull’ambiente universitario anche in relazione al crescente aumento di studenti universitari con disabilità o particolari condizioni di svantaggio o con rischi sempre più frequenti di dispersione e di mancanza di motivazione ad apprendere e a comunicare. Particolare attenzione verrà data alla individuazione degli stili di apprendimento e di espressione, i bisogni cognitivi, attraverso le “storie di apprendimento” individuali.
Sono previste strategie di mediazione e di uso di “ausili di adattamento”, sperimentazioni di software, possibilità di usare le tecnologie per la trasformazione dei saperi, anche in quei casi di particolari gravità nei quali viene richiesta la rielaborazione dei contenuti pur rendendoli equipollenti”.
Questo scritto nasce dal bizzarro desiderio di collegare le innovazioni tecnologiche – il FIRB – all’educazione attiva cooperativa derivabile da Freinet.

Il tatônnement.

Il tatônnement, caro a Freinet, è un termine intraducibile, e che quindi non traduciamo. Consideriamo invece il suo significato cercando di “smontarne” il complesso di elementi che lo compongono.
Proviamo a metterli in fila:
- mettere le mani in pasta. Ciò significa, e comporta, l’accettazione del presente limitato. Con l’esercizio, accade che la mano proceda e la mente preceda. Questo significa che la mente si allena nell’esplorazione ipotetica (cfr. M. A. Reda, 1986. A. Semerari, 1992). Significa anche che un insuccesso, come un successo, non va considerato come totale, definito per sempre: è relativo al presente limitato. Che può rivelarsi più rispettoso del mondo nel suo insieme confronto ai risultati di chi vuol pensare a progetti totali e universali, con successi, e insuccessi, totali e universali.
- Procedere a poco a poco. I tempi ed i ritmi, come le procedure, sono dettati e concordate dal procedere. Il presente limitato si sposta; trasforma, ci trasforma, si trasforma. Dovremmo capire che non esiste lo strumento universalmente valido, tale da permettere di vincere la sfida che pone un problema nuovo. Un problema nuovo esige uno strumento appropriato. Gaston Bachelard ha considerato il lavoro dello scienziato come un procedere nel buio con in mano una candela. Ciò significa vedere ben poco di ciò che è attorno. “Un metodo scientifico è un metodo che cerca il rischio. Sicuro di ciò che ha acquisito, si avventura in un’acquisizione. Il dubbio è davanti al metodo e non dietro, come in Cartesio” (G. Bacherald, 1975, p. LV).
- Ricordarsi il percorso fatto e il progetto che ci ha mosso. La mano – che chi legge avrà capito che rappresenta i cinque sensi – lascia nella mente delle tracce, che sono, dunque, rintracciabili. Questo ci permette di realizzare confronti di esperienze anche lontane nel tempo, e di dedurne indicazioni che in qualche modo sfuggono alla prigionia e al determinismo della singola esperienza. La memoria può essere tanto ars che vis. L’ ars émnemotecnica: dai luoghi e dalle immagini viene elaborata una sorta di scrittura mentale. La vis è legata al paradigma temporale, ed è piuttosto un esercizio dell’intelletto (cfr. A. Assmann, 2002). Questo significa compiere una sorta di benchmarking (cfr.M. Spendolini, 1996; 1992) mentale. Ovvero un confronto fra la prassi in atto e le precedenti esperienze, per individuare punti forti e punti deboli, somiglianze e differenze. Questo favorisce l’approccio narrativo alla mente: “L’azione dell’individuo nel mondo è guidata dai processi di anticipazione degli eventi, da simulazioni mentali di stati possibili del futuro, da rappresentazioni sufficientemente realistiche dell’ambiente, degli altri e del proprio corpo, nonché da motivazioni, intenzioni e credenze” (G. Dimaggio, in A. Temerari, 1999, p. 187).
- Adattare il progetto al procedere, mantenendo l’identità del progetto stesso. L’artigiano falegname che costruisce un mobile, ha l’abilità di tener conto del tipo di legno che utilizza, delle sue caratteristiche più intime, per adattare legno e progetto in modo che si incontrino senza che nessuno dei due venga negato. Ed è analoga l’attività di un buon Educatore: tiene conto delle caratteristiche di ogni soggetto per farlo incontrare con un progetto. Incontrare qualcuno senza proporre un progetto vuol dire lasciare vuoto l’incontro. Ma un progetto, per vivere, deve attraversare dei conflitti. Evitare i conflitti o affrontarli con l’aggressività di chi crede che risolverli sia un’impresa militare, può voler dire rovinare un progetto. Il dialogo fra progetto e realtà è, a volte, un conflitto positivo e quasi indispensabile. “Il concetto di organizzazione inclusiva si ispira a un sistema di differenze che non tende all’omologazione e a un adattamento diretto dall’esterno; a differenza della classica idea di organizzazione come insieme omogeneo al quale le singolarità si devono uniformare, quella inclusiva si presenta come un ambiente di relazioni e di co-costruzioni. La cultura organizzativa che ne deriva è perciò sempre dinamica […]” (R. Nedeghini, 2006, p. 31).
- Concentrarsi sul presente. Quello che è stato fatto in passato può essere utile per quello che si sta facendo, ma non può essere ripetuto identicamente. E neppure può pregiudicare il presente. Ogni azione è a suo modo originale, ed è fattibile perché abbiamo potuto fare altre azioni, analoghe e mai uguali.

Il tatônnement è un ragionare per frammenti, che dovrebbe essere il modo più sensato della condizione umana, di chi vive un frammento di tempo rispetto al tempo del mondo. Ma il tempo del mondo non è indifferente al singolo vivente, che si spinge, con la mente, oltre il suo tempo, nel passato come nel futuro. Nei confronti delle persone con disabilità, il ragionare per frammenti significa non cadere nell’errore di credere che, avendo incontrato un soggetto cieco, si può tranquillamente ritenere che il prossimo soggetto cieco sia identico. Potrà avere problemi analoghi. Ma ciascuno è un frammento di realtà, ed esige che si ragioni in relazione a quel frammento. Le categorizzazioni e le generalizzazioni sono un modo per non conoscere la realtà che si presenta per frammenti. La verità di un orizzonte non può cancellare e neppure assorbire l’originalità di un soggetto. E anche lo studioso osservatore è un soggetto: frammento di realtà che non può proclamare verità assolute.
Possiamo, certo, assumere il compito di cercare di collocare un frammento rispetto ad un orizzonte più vasto. E quindi tener ben presente il frammento di terreno in cui siamo e alzare lo sguardo per scrutare l’orizzonte. Questo è quanto si può trovare in C. Taylor e S. White (2005).
Il termine tatônnement è stato utilizzato dall’economista Léon Walras (1834-1910), padre della formulazione completa della teoria dell’equilibrio economico generale. Walras utilizza il termine tatônnement, traducibile con “andare a tentoni”, per indicare il processo di contrattazione che può assicurare il perfetto equilibrio tra domanda e offerta. Ma il tatônnement stato criticato, sostenendo che in una contrattazione uno dei soggetti ha maggiori informazioni e può dirigere la transazione in termini non certo equilibrati. Freinet, introducendo il tatônnement, delinea un processo che vede il maestro in posizione di guida, con l’autorevolezza adeguata. Nello stesso tempo, il maestro non può prevedere la maniera in cui chi apprende procede, e quindi per questo procede con un vero e proprio tatônnement, senza sconti e senza trucchi.

Il tatônnement sperimentale in Célestin Freinet.

Tutto il problema dei metodi pedagogici contemporanei è dominato da questo malinteso: possiamo dare una matita ad un bambino che non sa tenerla [in mano] affinché impari,appunto attraverso tatônnement sperimentale ad afferrarla e a servirsene? Dobbiamo lasciare parlare il bambino che non sa pronunciare nessuna parola correttamente perché impari a parlare, o dobbiamo farlo tacere fino al momento in cui conoscerà sufficientemente il senso e l’uso delle parole per servirsene con sicurezza? Possiamo lasciare calcolare intuitivamente con processi di tatônnement sperimentale di cui nessuno conosce effettivamente i meccanismi, nella speranza che il bambino impari così a calcolare? Lo obbligheremo, come insegna la scolastica, a conoscere inizialmente i segni e i numeri e le loro combinazioni, un metodo che porterà a una forma eminentemente meccanica di calcolo?
Che cosa dicono la psicologia e la vita? Qual è il metodo più sicuro, più universale e più efficace? Ecco il grande problema di cui molto lealmente dovremmo occuparci.
Cerchiamo all’inizio di ragionare con buon senso. Nessuna, assolutamente nessuna delle grandi acquisizioni vitali si fa con i procedimenti apparentemente scientifici. E’ camminando che il bambino impara a camminare; è parlando che impara a parlare; è disegnando che impara a disegnare. Non crediamo che sia esagerato pensare che un processo così generale e così universale debba essere esattamente valido per tutti gli insegnamenti, quello scolastico compreso. Ed è in forza di questa certezza che abbiamo realizzato i nostri metodi naturali; di questi metodi gli scientisti cercano di contestare il valore. Tutti i progressi, non soltanto dei bambini e degli uomini, ma anche degli animali, dal più piccolo al più grande, si fanno attraverso questo processo universale di tatônnement sperimentale. Certamente, prima di criticare la nostra audacia, bisognerebbe anche comprendere che cosa è questo tatônnement sperimentale, che viene molto spesso confuso con la pratica delle prove ed errori; una pratica che si crede sia animata sovranamente da una caso/una casualità che non si fonderebbe su nessuna fissazione delle acquisizioni.
Portiamo un elemento nuovo a questa pratica delle prove ed errori: è la permeabilità all’esperienza. La goccia che scorre sul suolo vergine avanza a caso, secondo i solchi e i pendii. Ma a forza di cadere sullo stesso punto o di scorrere nello stesso senso che porta a buche, si formano solchi che attirano ormai l’acqua che si presenta e che, naturalmente, passerà per i solchi sistemati dall’esperienza. Se la pietra è dura, se è impermeabile a questa esperienza, nessun solco si scaverà e l’acqua continuerà a spandersi a caso o sotto l’effetto di un filo di polvere che disturba per un istante lo scorrimento. Potrebbe scorrere così per secoli senza che niente cambi in questo processo se l’impermeabilità è totale.
Ma se al contrario, a causa di una permeabilità più o meno marcata, le gocce scavano il solco, questo dà origine a tutte le trasformazioni che gli elementi apportano alla configurazione del nostro suolo. E’ la stessa cosa per gli individui. In origine, l’atto è puramente casuale. Ma, molto rapidamente, scava una traccia dove l’atto tenderà a ripetersi. Non c’è , nella direzione da prendere e nelle condizioni del tracciato, assolutamente niente che sia già stato definito. Niente dice all’atto che deve andare in un senso particolare. Soltanto interverranno gli ostacoli che faranno da sbarramento e trascineranno la vita nel senso dell’atto riuscito.
L’atto riuscito apre effettivamente la via al torrente di vita. L’ostacolo e l’insuccesso lo contrastano e respingono verso le vie aperte dall’esperienza. E’ quello che constatiamo quando esaminiamo l’acquisizione da parte dei bambini dei meccanismi di base, il camminare per esempio.
A questo livello, due spiegazioni sono indispensabili alla comprensione generale del processo.
Quando parliamo di permeabilità all’esperienza e di traccia lasciata nel comportamento, non sottintendiamo che il bambino dovrà obbligatoriamente ripetere a lungo l’atto riuscito, prima di padroneggiarlo. Ciò dipende dagli individui.
Ci sono bambini – sono bambini ritardati a diversi gradi – che hanno effettivamente bisogno di ripetere cento volte lo stesso gesto prima di garantire la sua riuscita. Il loro corpo è molto poco permeabile all’esperienza; è come una lastra fotografica usata, sulla quale le immagini lasciano soltanto una traccia appena percettibile. Ma il corpo umano ha possibilità ancora insospettate. Ci sono bambini che hanno una sensibilità all’esperienza talmente acuta che il gesto non ha nemmeno bisogno di venire ripetuto per lasciare la sua traccia indelebile. Che cosa dico [mai], l’immagine del gesto, l’inizio del gesto, una porzione infinitesimale del gesto bastano! Siete costretti a fare ripetere cento volte un atto al ritardato. Il bambino intelligente non vi lascia nemmeno fare la dimostrazione. La traccia è fatta, con vie di una tale sottigliezza che nessuna meccanica riesce ancora ad avvicinare. E già il bambino galoppa davanti a voi. Eppure, il processo è lo stesso.
L’individuo non passa a una nuova acquisizione fin quando l’esperienza in corso non ha fatto la sua traccia indelebile. Allora l’atto diventa meccanico. E’ tecnica di vita che servirà da solido trampolino per le acquisizioni successive.

(da "Come suscitare il desiderio di imparare?" Célestin Freinet, a cura di PHILIPPE MEIRIEU, traduzione dal francese di Roberto Bianchi. Materiale ad uso interno per attività didattica. Corso di pedagogia della Fac. di Psicologia dell’Università di Bologna.)



Una logica e due tipi di conoscenze.

Abbiamo proposto una modalità di procedere che chiamiamo del progetto secondo la logica del domino. Ne individuiamo alcune caratteristiche:
- fatto il primo passo, il secondo è dettato dal contesto combinato con le competenze di chi opera. Nel gioco del domino, da cui abbiamo derivato l’indicazione di questa logica, il primo pezzo è scelto sulla base, un po’ casuale, della prossimalità e della visibilità. Ma questi che nel gioco sono elementi del tutto casuali, possono costituire suggerimenti utili. Partire da ciò che è vicino e vediamo meglio. Si può scomodare Vygotskij.
Come le tessere i pezzi del domino, il percorso procede per combinazioni di contatto. Nel gioco del domino, il giocatore non dovrebbe avere in testa una combinazione di contatti. Se anche l’avesse, deve sottoporla alla legge delle combinazioni, apparentemente casuali, che le tessere gli offrono. Il problema è che, mentre i pezzi del domino abitualmente permettono una lettura facile e sicura, nel processo che si attiva secondo questa logica, la “lettura” è problematica. Per evitare “letture” arbitrarie, occorre predisporre un’organizzazione (materiali didattici?) che permetta l’avanzamento del processo secondo la realtà che si incontra. L’elemento “interfaccia”, o mediatore, deve avere qualche punto che accomuni e colleghi. Di conseguenza, l’insegnante, che guida il processo essendo a sua volta guidato dalle combinazioni, può facilmente assumere le caratteristiche di solidarietà e di autonomia, nel senso che non può indulgere in alleanze che prescindano dalle combinazioni del domino. Il suo essere interfaccia non comporta l’annullamento delle differenze. E’ il passaggio dal binario aut-aut alla pluralità delle possibilità offerte dal contesto (cfr. P. Nègre, 1999, pp. 16-17).
- non vi è una previsione del “disegno” finale, ma questo risulterà dal processo in corso. Per evitare che il risultato sia improprio e scadente, chi conduce il gioco (professore) deve avere l’abilità (professionale) di fornire una “meta-lettura” del risultato, ovvero di saper trarre indicazioni utili per tutti i giocatori (studenti) anche da un risultato non pienamente soddisfacente. Questo dovrebbe tranquillizzare chi, leggendo, avesse vissuto la preoccupazione di veder cancellato il ruolo docente. Non è affatto cancellato. Anzi: è rinforzato in una funzione “meta”.
- di conseguenza dalla precedente caratteristica, è più difficile predisporre indicatori di valutazione di qualità sul risultato (più agevole sul processo). Il processo è formativo. Lo è in una modalità che inevitabilmente è personalizzata. Potrebbe anche accadere che la valutazione del processo sia positiva, pur con un risultato improprio e scadente. Questo dovrebbe far capire meglio di tante parole, il rischio della ricerca intellettuale scientifica – che in qualche modo si connette all’insegnamento universitario -: non basta, anche se ci vuole, un buon modo di procedere (processo) per garantire un buon risultato. E un cattivo modo di procedere non garantisce un buon risultato.
- “[…] emerge una continuità tra Bisogno Formativo Speciale e normalità, un continuum tra normalità e patologia, dove il punto di passaggio rischia di essere arbitrario, se non vengono definiti dei criteri il più possibile oggettivi a tutela del benessere e dello sviluppo del soggetto” (D. Ianes, 2006, p. 27).
Conoscenze: sistema chiuso o sistema aperto?
Le conoscenze possono essere vissute come un sistema chiuso o come un sistema aperto.
Per sistema chiuso possiamo intendere un certo numero di elementi ritenuti in assoluto come imprescindibili. Non prendiamo in considerazione l’idea di un sistema chiuso completo e totale. Una tale idea non sarebbe sostenuta da nessuno, e presentarla sembrerebbe un espediente retorico per promuovere l’dea del sistema aperto. Invece un sistema chiuso relativamente a conoscenze ritenute in assoluto come imprescindibili è sostenibile non fosse altro perché è sostenuto da quanti lamentano che, ad esempio, arrivino all’università giovani che “non sanno scrivere”. Dicendo questo, si intende che il “saper scrivere” faccia parte appunto di conoscenze ritenute in assoluto come imprescindibili. Ma questo ci interessa marginalmente. Ci interessa più sostanzialmente cercare di capire se questa idea comprenda anche – questo è sostanziale – le modalità di apprendere. Un sistema chiuso, relativo a un certo numero di elementi ritenuti in assoluto come imprescindibili, comprende fra tali elementi le modalità di apprendimento. Nella formazione, e in generale nell’educazione, un sistema chiuso comporta il rischio dell’appiattimento, e questo può danneggiare anche coloro che sembrano essere favoriti dallo stesso sistema chiuso, ovvero gli studenti che sono apparsi a priori congruenti alle richieste del sistema.
E’ utile ricordare quanto Todorov scriveva a proposito dello scientismo. “Il punto di partenza dello scientismo è un’ipotesi sulla struttura del mondo: questa è interamente coerente. Di conseguenza, il mondo è come trasparente,può essere conosciuto senza resti dalla ragione umana. Il compito di questa conoscenza è affidato a una pratica appropriata, chiamata scienza. Nessuna particella del mondo, materiale o spirituale, animata o inanimata, può sfuggire all’impresa della scienza”(T. Todorov, 2001, p. 31). Un sistema di conoscenze chiuso può invece rappresentarsi come aperto perché i suoi componenti si dichiarano “aperti”. Ma lo sono unicamente all’interno del mondo, chiuso, della scienza, e per di più accademica.
Per sistema aperto possiamo intendere un campo di conoscenze in divenire e comprensivo di possibili nuove modalità di apprendere.
Ci permettiamo il ricorso ad un’immagine. Le conoscenze sono come un’esplorazione di un territorio. Qualcuno ritiene che l’esplorazione debba essere compiuta unicamente con alcuni strumenti predefiniti – un certo tipo di calzature, un certo tipo di osservazione, eccetera -. E’ un sistema chiuso. Altri ritengono che strumenti dell’esplorazione facciano parte dell’esplorazione stessa, e vadano messi in rapporto a chi esplora, al terreno da esplorare, alle condizioni climatiche, eccetera. E’ un sistema aperto. “In questo modo, l’educazione si ri-fa costantemente attraverso la prassi. Per essere bisogna essere-in-divenire. La sua , nel senso bergsoniano della parola, come processo, si localizza nel gioco dei contrari permanenza/cambiamento” (P: Freire, 2002, p. 73).
Un sistema chiuso utilizza esclusivamente ciò che contiene, ritenendolo completo. Ha un’economia predefinita. Non ha attività di scambio, ad esempio di energie, con ciò che gli è esterno. Un sistema aperto interagisce con l’ambiente scambiando ad esempio energia.
Le conoscenze come sistema aperto possono esaminare le possibilità di nuovi, innovativi, modi di apprendere, collegando le innovazioni agli strumenti, che possono essere nuovi e permettere di conseguire risultati nell’apprendimento a chi ne sembrava definitivamente escluso. E questo può suscitare in chi non l’aveva un desiderio di apprendere che permette di organizzarsi e di sopportare le fatiche dell’apprendimento.
E’ forse evidente che un sistema aperto esige impegno e fatica, che premia con possibili risultati non scontati.
Un insegnante, nel sistema aperto, incontra un soggetto inatteso – ad esempio un soggetto con bisogni educativi speciali -, e deve perciò cercare qualcosa di nuovo. L’inatteso fa nascere l’innovazione.

Ognuno sa bene che la scuola è una faccenda molto seria, che costa carissimo alla nazione, con gente molto importante, rettori, ispettori di ogni sorta, amministratori, ideatori di programmi, insegnanti...
Tutta questa macchina è concepita affinché gli alunni imparino.
Eppure, basta un granello di sabbia perché questa macchina si inceppi: un alunno, un ragazzino, un somaro [“un caneve”] alla Prévert che, a un certo momento, vede la sua mente imbizzarrirsi, guarda alla finestra, comincia a sentire la parola del maestro allontanarsi... un bambino con la mente che scappa dalla classe e vagabonda.
Come ritrovare il gusto del lavoro a scuola? O secondo la formula di Freinet, come fare bere un cavallo che non ha sete? E’ questo il problema a cui dedica tutta la sua vita.
Perché Freinet è convinto che i bambini hanno voglia di lavorare. Basta guardarli su una spiaggia portare in giro montagne di sabbia tutto il giorno. Basta guardarli appassionarsi per il montaggio o lo smontaggio di un apparecchio che scoprono. Perché quella energia e quella ostinazione non la mettono sempre in opera a scuola, o quando si tratta di apprendimenti essenziali che determinano il loro avvenire?


La sorpresa può nascere dal fatto che anche chi insegna può scoprire, nel sistema aperto, che lo stesso insegnamento può essere svolto con strumenti innovativi. Forse un piccolo problema può essere rappresentato da timore di rovesciamento di posizioni. Il soggetto che apprende potrebbe rivelare capacità che il soggetto che insegna non ha. Capacità diverse da quelle che chi insegna considera molte volte indispensabili. E questo è inquietante per chi ha sempre considerato che il suo ruolo, e il suo compito, avesse come fondamento il fatto che chi insegna ha capacità, conoscenze, competenze che chi impara non ha. E sa quali capacità, conoscenze, competenze chi impara dovrebbe avere e raggiungere. Sa che per raggiungere certe capacità, conoscenze, competenze bisogna prima avere determinate capacità, conoscenze, competenze. Mettere in dubbio tutto questo non è facile. Però è possibile, ed anche appassionante, se chi insegna, come accadde a Freinet prende lo spunto dai propri limiti per innovare.

Quando Freinet arriva nella sua classe, dopo la guerra del 14-18, è stato ferito ai polmoni: non può fare corsi, lezioni. Non ha la forza fisica per farli. E ha un lampo di genio assolutamente straordinario. E se fosse vero che tutto ciò che handicappa il maestro favorisce l’attività dell’alunno?Inizia dunque a mettere i suoi alunni al lavoro.
E’ questo, in fondo, il punto di partenza di Freinet.

Se gli alunni si annoiano talvolta a scuola, non è perché si impone loro di lavorare; il motivo è che non li si fa veramente lavorare, è il maestro che lavora mentre gli alunni ascoltano. Allora, afferma Freinet, mettiamo gli alunni al lavoro e diamo loro compiti che hanno senso.
Non si fa un giornale scolastico per ricevere un voto, ma perché in occasione di quella iniziativa si comunicherà con il paese e con altri classi dappertutto in Francia. Freinet ne è convinto: è il lavoro che motiva, il vero lavoro, perché è un lavoro che ha senso. E’ il lavoro che permette di investire sé stessi.
La classe si avvicina dunque gradualmente all’atelier, al laboratorio, e si allontana sempre più da questa “classe santuario”, dove un chierico farfuglia conoscenze mentre gli alunni tentano di ricopiare sul loro quaderno.
E siccome ci si mette al lavoro insieme, bisogna rivedere radicalmente le regole che disciplinano il comportamento degli alunni. A partire dal momento in cui la scuola non è più una chiesa, bisogna che gli alunni si riuniscano regolarmente con il maestro per dirsi ciò che è permesso, ciò che è autorizzato.
E’ così che Freinet realizza il Conseil de coopérative: qui, si gestisce inizialmente il materiale della classe; vi si elabora successivamente il regolamento interno necessario al buon funzionamento della vita sociale.

L’ambiente dell’apprendimento.

L’ambiente dell’apprendimento nel sistema chiuso non prevede novità. Nell’insegnamento universitario, molti sembrano ritenere che un’aula valga per quel che valga, e cioè poco. Un docente viene invitato a cambiare aula, e se manifesta il suo malumore per questo cambiamento, siamo dell’opinione che questo faccia parte di un certo vezzo accademico. Ma potrebbe anche essere che quel docente consideri l’aula come una variabile di una certa importanza per il proprio rendimento professionale. “[…] l’apprendimento scolastico possiede caratteristiche specifiche che lo distinguono nettamente dalla altre forme di apprendimento che avvengono in contesti di vita quotidiana, in quei contesti non esplicitamente e non educativi.
Il manifesto della scoperta di questa distinzione è ormai un classico articolo di L. B. Resnick [Imparare dentro e fuori la scuola, in C. PONTECORVO, A. M. AJELLO, C. ZUCCHERMAGLIO (1996), a cure di, I contesti sociali dell’apprendimento, Milano, LED. L’originale è del 1987] [… che…] descrive quattro caratteristiche del funzionamento cognitivo degli individui nei contesti di vita quotidiana, che si contrappongono a caratteristiche tipiche del loro funzionamento nel contesto scolastico.
Vediamole:
1. cognizione individuale (in) versus cognizione condivisa (out). A scuola le attività sono più individuali, e anche quando occasionalmente esistono esperienze di lavoro di gruppo, la valutazione è sempre del singolo. Gli allievi stanno insieme in un’aula, ma ad ognuno è richiesto di produrre e pensare in modo indipendente dagli altri. Al contrario all’esterno, nella vita di ogni giorno, al lavoro, la maggior parte delle attività che svolgiamo sono condivise socialmente: le abilità di una persona sono sempre sostenute dalle attività e dalle competenze degli altri e i funzionamenti mentali di ognuno sono sempre funzionamenti sociali.[…]
2. attività mentale pura (in) versus manipolazione degli strumenti (aut). […] A scuola non si considera minimamente il fatto che spesso la competenza di una persona sta proprio nella capacità di utilizzo efficace delle competenze degli altri e degli artefatti e strumenti, nei quali gran parte delle conoscenze individuali può venire distribuita.
3. manipolazione di simboli (in) versus ragionamento contestualizzato (aut). [la matematica pratica, applicata a un contesto] […].
4. apprendimento di principi generali (in) versus competenze situate in contesti (out). […]” (C. Zucchermaglio, 1996, pp. 49-51)
Mentre l’apprendimento come “pratica sociale situata” ha altre caratteristiche:
1. “L’apprendimento è una pratica fondamentalmente sociale. […].
2. La conoscenza è integrata e distribuita nella vita della comunità. […].
3. L’apprendimento è un atto di appartenenza. […].
4. L’apprendimento è coinvolgimento nelle pratiche. […].
5. Il coinvolgimento deve essere legato alla possibilità di contribuire allo sviluppo della comunità. […].
6. Non si impara quando ci è preclusa la partecipazione. […].
7. Esiste già una società di individui che apprendono sempre. […]” (C. Zucchermaglio, 1996, pp. 74-78).
La proposta universitaria dovrebbe qualificarsi proponendo l’apprendimento come “pratica sociale situata”. E situata in un ambiente costituito dalle innovazioni tecnologiche dettate anche da una prospettiva inclusiva.
Sono passati diversi anni da quando alcuni ricercatori nord-americani, mettendo in relazione l’efficacia degli apprendimenti e l’ambiente, affermavano che la qualità della vita è un concetto senza significato se non si ferma a comprendere come gli stessi individui vedono la loro vita, come vivono e si sentono in rapporto alle diverse situazioni. Senza queste caratteristiche, gli apprendimenti sono ostacolati. E proponevano alcuni indicatori di qualità dell’ambiente, utili per rendere più favorevoli gli apprendimenti:
- avere un proprio ambito privato ( un chez-soi)
- avere una rete sociale
- vivere dei legami di reciprocità
- avere una vita affettiva soddisfacente
- comunicare
- avere un ruolo sociale valorizzato
- essere presente e utile nella comunità
- esercitare, e quindi conoscere, i propri diritti
- possedere diverse abilità
- avere uno stile di vita significativo ed arricchente (sperimentare, partecipare, scegliere…)
- essere in buona salute
(cfr. D. Fraser, L. Labbé, 1993).

Università come ambiente di apprendimento.

Qualcuno, pensando a spazi affollati, servizi igienici insufficienti, accessi che lasciano a desiderare, eccetera, dirà che è meglio lasciar perdere. Ma il progetto FIRB Ret@ccessibile: insegnamento - apprendimento insieme e per tutti in un progetto di vita non lascia perdere e rilancia. Non lo fa rinunciando a unirsi nella richiesta di migliorare l’accesso alle sedi, i servizi igienici, i trasporti, eccetera. Non possiamo rinunciare ad esprimere la nostra protesta per come le università sono maltrattate, private di risorse economiche ed umane, massacrate in nome di una malintesa meritocrazia… Il progetto FIRB Ret@ccessibile: insegnamento - apprendimento insieme e per tutti permette di organizzare l’ambiente di apprendimento non sostituendo strutture (aule, servizi, laboratori, eccetera) ma completandole con una proposta che permette di realizzare una qualità in cui buona parte degli indicatori di Fraser e Labbé abbiano risposte soddisfacenti. E questo, con il contributo attivo del singolo studente, invitato ad organizzare l’ambiente favorevole al proprio percorso di studi ed alle proprie caratteristiche di studio.

Freinet, nel 1960, descrive così la sua classe: "Ragazzine sono occupate alle faccende domestiche e alla cucina, un piccolo commerciante ai suoi calcoli. Altri stampano, un piccolo artista imprime linoleum. Un futuro meccanico monta elementi, smonta, fa esperimenti...".Dietro a luoghi comuni senza dubbio caratteristici di un’epoca, c’è proprio un vero problema che ritrovano tutti quelli che praticano “metodi attivi”: chi farà cosa? Ci si domanda se non c’è un vero pericolo che soltanto i più competenti si perfezionino in quello che sanno già e gli altri siano esclusi.
Chi garantisce che non è il più dotato in disegno che illustrerà il giornale, mentre uno dei suoi compagni, bravo in ortografia, scriverà sotto la dettatura di quello che ha molta immaginazione?... mentre gli altri non fanno niente, perché se facessero qualcosa il risultato sarebbe molto meno buono!
Freinet allora prende coscienza di una tensione molto forte che modella tutta la pedagogia e tutta la sua opera in particolare: bisogna dare un senso al sapere attraverso una attività collettiva, ma bisogna [anche] essere attenti alla progressione e agli apprendimenti di ciascuno. Da qui deriva l’idea di Freinet di introdurre, per controbilanciare i pericoli potenziali del lavoro di gruppo, il sistema dei brevetti individuali: tutti gli alunni dovranno sostenere prove obbligatorie per ottenere i brevetti e lavorare individualmente alla loro preparazione.
In funzione dei loro bisogni e dei loro risultati, ciascun alunno avrà un “piano di lavoro” in base al quale tutti lavoreranno autonomamente.
[da Come suscitare il desiderio di imparare? Célestin Freinet, a cura di PHILIPPE MEIRIEU, traduzione dal francese di Roberto Bianchi. Materiale ad uso interno per attività didattica. Corso di pedagogia della Fac. di Psicologia dell’Un. di Bologna.

Attività collettiva e apprendimenti individuali.

Una delle caratteristiche che sembra distinguere lo studio universitario dallo scolastico è costituita dalla credenza che quello universitario sia fondamentalmente studio individuale. Ciascuno, in università, deve essere capace di organizzare il suo studio. Che significa: orari delle lezioni, calendari degli esami, ricerca dei libri di testo, ritmi di studio, eccetera. Ma si può presumere totalmente e semplicemente queste capacità? Le università che hanno organizzato forme di tutorato e di presidi didattici, hanno evidentemente ritenuto che non si può dare come scontate tali capacità – chi le ha, bene. Chi non le ha, pazienza… -. Queste università, a nostro parere molto giustamente, ammettono le differenze e cercano, come possono, di organizzarsi e organizzarle.
Due studiosi canadesi, nel curare un testo di studi sulla formazione inclusiva, hanno fornito tre risposte alla domanda sul perché l’inclusione:
- per sviluppare il potenziale pieno di tutti i componenti della comunità.
- Per sviluppare le competenze e le attitudini necessarie al “meglio vivere insieme”.
- Per puntare sulle forze della collettività piuttosto che sui suoi limiti (N. Rousseau, S. Bélanger, 2004, p. 3).

FREINET. Attività collettiva e apprendimenti individuali.

[…]
“Motivare proponendo compiti capaci di mobilitare l’interesse e l’energia degli alunni”.
[…]
“Non scartare i meno competenti in nome della qualità della produzione”.
[…]
“Permettere a ciascuno di progredire in occasione di / quando si fanno attività collettive”.
[…]
Tra la finalizzazione collettiva e gli apprendimenti individuali, bisogna scegliere... oppure ci si rassegna a che questi apprendimenti vengano ridotti a semplici “perfezionamenti” di acquisizioni anteriori, o rimandare l’emergere improbabile di “motivazioni” che nasceranno dal mimetismo o dall’arrivismo.
Dunque, la grandezza di Freinet è che lui è cosciente di questa contraddizione, ma rifiuterà sempre di scegliere tra due alternative che gli sembrano contemporaneamente contraddittorie e necessarie. E’ così che attraverso la sua opera si possono identificare due grandi tipi di articolazione della coppia finalizzazione/apprendimento.

“Un maestro attento a restaurare sempre l’equilibrio”.

La prima forma di articolazione, la più semplice apparentemente, è la giustapposizione delle due logiche sotto la responsabilità del maestro, che si assicura della qualità del “dosaggio” e cambia tipo di attività non appena percepisce stanchezza o eccessivo entusiasmo da parte degli alunni.
La sua vigilanza è qui essenziale, dato che [il maestro] deve essere capace di individuare il momento in cui il lavoro di gruppo degenera verso la deriva produttiva, per introdurre allora tempi di lavoro individuale; e deve anche identificare il momento in cui i lavori individuali sprofondano nel formalismo e perdono ogni riferimento a ciò che può dare loro senso... E’ allora che deve dare nuove motivazioni agli alunni in un attività dove loro ritrovano il senso di quello che hanno imparato e reinvestono le loro acquisizioni.
Questa articolazione poggia, lo si vede, sul maestro e su di lui solo; è forse là uno degli elementi essenziali di questa “parte/contributo del maestro” su cui hanno lavorato i militanti ‘Freinet’?
E’, nello stesso tempo la sua ricchezza e il suo limite: la sua ricchezza, perché il maestro è senza dubbio il solo a potere giudicare questa “ecologia” della classe e a potere restaurare un equilibrio minacciato... il suo limite, perché le decisioni del maestro possono sembrare arbitrarie agli occhi degli alunni e generare in loro numerose frustrazioni: il tale si vedrà interrotto mentre cominciava a comprendere qualcosa su cui lui era bloccato fino a quel momento; un altro si vedrà interrotto nella realizzazione di un compito che lui trova piacevole fare, semplicemente per permettere al suo vicino di acquisire competenze che lui padroneggia già.
“Concepire situazioni stimolanti che permettano di incontrare ostacoli grazie ai quali si dovrà imparare”

(da "Come suscitare il desiderio di imparare?" Célestin Freinet, a cura di PHILIPPE MEIRIEU, traduzione dal francese di Roberto Bianchi. Materiale ad uso interno per attività didattica. Corso di pedagogia della Fac. di Psicologia dell’Un. di Bologna.)


Riusciremo a riscrivere i testi che abbiamo messo nelle schede, sostituendo Freinet e la sua classe, con esempi di vita universitaria? Questa è la scommessa. O meglio: è l’impegno.

NOTE BIBLIOGRAFICHE.
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